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Corte Cassazione. Immigrato colpisce con pugni poliziotto per opporsi a espulsione: “ASSOLTO, NON É PUNIBILE”


Una sentenza della Cassazione che fa discutere: l’immigrato irregolare che colpisce il poliziotto per opporsi a espulsione illegittima non è punibili. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale c’è, ma l’articolo 131-bis del Codice penale consente di non punire le condotte quando la lesione al bene protetto è particolarmente lieve e il comportamento non è abituale, o reiterato

Foto archivio

La Corte di Cassazione con la sentenza 25309, ha stabilito un principio che la lascia perplessi. Se un immigrato irregolare aggredisce un poliziotto, il reato di resistenza a pubblico ufficiale c’è, ma l’immigrato non può essere condannato in applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale, che consente di non punire le condotte quando la lesione al bene protetto è particolarmente lieve e il comportamento non è abituale, o reiterato.

Nello specifico, la sentenza è relativa ad W.M.,  immigrato africano, classe 1989, che per evitare di essere condotto al centro per l’identificazione e l’espulsione – dopo essere stato visitato in ospedale per una verifica delle sue condizioni di salute – aveva colpito più volte l’agente con calci e pugni che gli bloccava le caviglie per impedire la fuga.

L’immigrato per questi fatti fu condannato a Trento per resistenza a pubblico ufficiale, sia in primo che in secondo grado, in quanto aveva reagito fuggendo al tentativo di un agente di polizia di riportarlo nel Centro di identificazione ed espulsione di Caltanissetta sulla base di un provvedimento di rimpatrio.

In effetti, l’ordine di espulsione era stato poi annullato dal giudice per le indagini preliminari. Il “foglio” di via non poteva essere disposto, perché lo straniero aveva patteggiato una pena con un limite inferiore ai due anni. La scelta del rito alternativo esclude, infatti, l’espulsione: in più la sentenza non era ancora passata in giudicato. Circostanze sulle quali l’imputato era stato informato dal suo legale. Da qui la consapevolezza di subire un abuso.

La Suprema corte però ha negato  la possibilità di applicare l’esimente della causa di giustificazione per gli atti arbitrari, prevista dall’articolo 393 bis del Codice penale. Una possibilità che – in democrazia – permette al cittadino di resistere individualmente al sopruso commesso dal pubblico ufficiale, rendendo la reazione penalmente lecita. Un diverso atteggiarsi dei rapporto Stato-cittadini figlio dei momenti storici: la causa di giustificazione, già presente nel Codice Zanardelli nel 1889, è stata abolita nel 1930 dal Codice Rocco, per essere reintrodotta nel ’44 come passaggio essenziale per superare il regime autoritario.

Nel caso esamimato però non sarebbe stato possibile riconoscere allo straniero questa esimente, per la quale non basta l’illegittimità dell’atto adottato. Serve, infatti, un comportamento vessatorio e arbitrario dell’agente di pubblica sicurezza che, consapevole di compiere un abuso, usi una “forza” sproporzionata rispetto ai fatti. Non era stato questo il comportamento adottato dall’ispettore di polizia preso a calci, il quale era, in buona fede, convinto di fare il suo dovere facendo rispettare un provvedimento della magistratura. Il poliziotto si era limitato ad afferrare le caviglie dell’imputato per non farlo fuggire. Quanto a quest’ultimo va “perdonato” e non punito perché si voleva solo sottrarre ad un rimpatrio ingiusto.

Infine la Corte di Cassazione ricorda che con il decreto sicurezza bis (53/2019) è stata preclusa l’applicazione della causa di non punibilità per la resistenza e l’oltraggio al pubblico ufficiale. Un paletto che la Consulta ha ritenuto non manifestamente irragionevole, visto il bene giuridico protetto meritevole di particolare protezione. Nello specifico però i fatti commessi erano precedenti.

Dura la dichiarazione di Domenico Pianese, del sindacato autonomo di polizia Coisp, che ritiene il verdetto inaccettabile: Supporre che si possa prendere a calci un poliziotto perché la ribellione è considerata l’unica difesa per impedire un atto percepito come ingiusto, come ad esempio un decreto di espulsione emanato dall’autorità giudiziaria, equivale a legittimare la violenza nei confronti delle donne e degli uomini delle Forze di Polizia”.