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DPCM di Conte? Illegali, limitano diritti e libertà costituzionali. Tribunale di Pisa assolve multato: “il fatto non sussiste”


Lapidario il giudice del Tribunale Pisano: “Solo un atto avente forza di legge e non un atto amministrativo, come è il Dpcm, può porre limitazioni a diritti e libertà costituzionalmente garantiti”


Il Tribunale di Pisa in composizione monocratica, nella persona della dott.ssa Lina Manuali, con sentenza n. 419 del 17 marzo 2021, ha assolto un imputato dal reato di cui all’art. 650 del codice penale (inosservanza dei provvedimenti dell’autorità), “perché violava l’ordine imposto con Dpcm dell’8/3/2020 per ragioni di igiene e sicurezza pubblica, di non uscire se non per ragioni di lavoro, salute o necessità”. L’assoluzione pronunciata dal Tribunale è con formula piena, cioè quella prevista dal primo comma dell’art. 530 del codice di procedura penale (perché il fatto non sussiste).

Non è la prima sentenza che va in questa direzione, dunque i tribunali quando sono chiamati a sentenziare sui Dpcm di Conte, dicono che erano illegali. Ciò che più conta però, è analizzare le motivazioni scritte nella sentenza dal giudice ordinario: “Solo un atto avente forza di legge e non un atto amministrativo, come è il Dpcm, può porre limitazioni a diritti e libertà costituzionalmente garantiti”.

Inoltre il giudice oltre ad elencare le libertà fondamentali illegittimamente compresse (tra le quali quella personale, di circolazione, di riunione, di associazione, religiosa etc), pone a fondamento della propria sentenza di assoluzione il mancato rispetto della riserva di legge assoluta, di quella giurisdizionale e dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 13 della Costituzione in materia di libertà personale.

In relazione al Dpcm dell’8 marzo 2020 e a quelli successivi, il giudice rileva l’importanza della inviolabilità della libertà personale sancita dal primo comma dell’art. 13 della Costituzione, evidenziando che la sua limitazione può essere consentita nei soli casi tassativamente previsti dalla legge (dunque da un atto avente forza di legge e non da un atto amministrativo, peraltro sottratto al controllo della Consulta) e solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria.

Il giudice specifica: “Orbene, nel nostro ordinamento giuridico, l’obbligo di permanenza domiciliare configura una fattispecie restrittiva della libertà personale e, in quanto tale, può essere irrogata solo dal Giudice con atto motivato nei confronti di uno specifico soggetto, sempre in forza di una legge che preveda casi e modi”. A tal riguardo, al fine di suffragare la propria decisione, il Tribunale cita la sentenza della Corte costituzionale n. 11 del 19 giugno 1956: “In nessun caso l’uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le ragioni”.

In altre parole Conte ci ha reclusi in casa, la prima volta per quasi due mesi (8 marzo – 4 maggio 2020), la seconda a macchia di leopardo (6 novembre – 11 dicembre 2020), violando palesemente il dettato costituzionale.

L’uso degli atti amministrativi denominati Dpcm – coi quali furono solo sommariamente individuati i casi, i termini e i modi di restrizione delle libertà fondamentali – non solo è da considerarsi illegittimo per via del mancato rispetto della riserva di legge assoluta, ma addirittura illegale per espressa violazione della riserva di giurisdizione e dell’obbligo di motivazione da parte dell’Autorità Giudiziaria. Neppure durante il fascismo si era arrivato a tanto: coprifuoco e limitazioni alle libertà fondamentali furono imposte soltanto in tempo di guerra e solo dopo l’occupazione tedesca.

Ma c’è di più. Il Tribunale di Pisa rileva altresì il mancato rispetto dell’obbligo di motivazione cui è soggetto l’atto amministrativo ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 241/1990: “La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

Pur riconoscendo la validità della motivazione per relationem offerta nell’ambito degli atti amministrativi (in pratica il semplice richiamo ad altri atti), il Tribunale ha rilevato che il Dpcm dell’8 e quello del 9 marzo 2020 mancano di idonea motivazione in quanto essi facevano generico riferimento ai verbali del Comitato tecnico-scientifico (Cts), verbali che il governo stesso ha classificato come “riservati” o “secretati”. Scrive il Tribunale: “In sostanza, è stata posta in essere tutta una situazione che di fatto non ha consentito la disponibilità stessa degli atti di riferimento, posti a base del provvedimento, con consequenziale invalidità dello stesso provvedimento”, richiamando a tal proposito l’art. 21 septies della Legge n. 241/1990: “E’ nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali”, in questo caso la motivazione.

L’imputato, assolto per il reato di cui all’art. 650 c.p., è stato invece condannato a quattro mesi di reclusione – con sospensione condizionale della pena – per il reato di cui all’art. 337 c.p. (per non essersi fermato all’intimazione dell’Alt dei Carabinieri). Il Tribunale ha indicato in giorni 90 il termine per il deposito delle motivazioni (già depositate), quindi il termine per l’impugnazione scade il 30 luglio 2021. Il Pm, da parte sua, non potrà impugnare l’assoluzione per il reato di cui all’art. 650 c.p. in quanto egli stesso aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non è più punibile a norma di quell’articolo, ma potrà invece impugnare la pena dei 4 mesi di reclusione in quanto lui ne aveva chiesti 6 (circostanza altamente improbabile). È invece molto probabile che sia la difesa ad impugnare la condanna ai 4 mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 337 c.p., in modo tale che sull’assoluzione per il reato di cui all’art. 650 c.p. cada il giudicato penale già il 31 luglio 2021, mentre sull’altro reato si applichi il principio generale del divieto di reformatio in peius.

Nel nostro ordinamento giuridico, che è di civil law e non di common law, non esiste il criterio di giudizio sulla base del “precedente”, salvo che non si tratti di sentenze emanate dalla Corte di Cassazione a sezioni unite (e anche qui il giudice può sempre regolarsi secondo il suo libero convincimento). Tuttavia, una volta caduto il giudicato penale sull’assoluzione di cui all’art. 650 c.p., tutti coloro che si trovassero imputati del medesimo reato e con capi di imputazione similari, potranno chiedere all’autorità giudiziaria di pronunciare sentenza di assoluzione al fine di evitare difformità tra giudicati penali per casi analoghi.