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Legge & Diritto. La cassazione ha sancito che denigrare il ctu (Consulente Tecnico d’Ufficio) è diffamazione


Ctu, acronimo di Consulente Tecnico d’Ufficio, è un esperto spesso nominato dal giudice, per assisterlo  nella risoluzione di problematiche di natura tecnica, quando le domande formulate dalle parti non consistano esclusivamente nella proposizione di questioni giuridiche. La cassazione ha stabilito che denigrarlo è diffamazione

È dell’aprile del 2020 la sentenza della V Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna per diffamazione aggravata inflitta nei gradi precedenti di giudizio ad un consulente di parte che, nelle osservazioni alla CTU redatte nell’ambito di una causa civile, aveva offeso la reputazione del perito d’ufficio (Sent. Cass. n. 12490/2020).

Il delitto di diffamazione è punito ai sensi dell’art. 595 c.p., che tutela la reputazione della persona offesa.
Si tratta di un reato comune, che può cioè essere commesso da chiunque, volto a salvaguardare la reputazione del soggetto passivo, cioè la stima che quest’ultimo riscuote presso i membri della comunità di riferimento. La condotta diffamante risulta perfezionata ogniqualvolta l’offesa venga comunicata a più persone e in assenza del soggetto passivo.

È un reato a forma libera che può dunque essere posto in essere con qualsiasi mezzo idoneo a ledere la reputazione della persona vittima di diffamazione.

Quanto all’elemento soggettivo, ai fini della configurabilità del delitto, l’art. 595 c.p. non richiede alcun fine specifico, ma è sufficiente che sussista il dolo generico, cioè la coscienza e la volontà dell’offesa, la consapevolezza dell’agente che le espressioni sono comunemente interpretabili come offensive.

Nel caso deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12490/2020 veniva contestato il delitto di diffamazione nella forma aggravata prevista dal comma 3 dell’art. 595 c.p., che punisce la condotta recata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità o in un atto pubblico.

Nell’offesa all’altrui reputazione posta con il mezzo della stampa è fondamentale il bilanciamento effettuato dal legislatore tra gli interessi in gioco e, dunque, tra il diritto ad aver garantita la propria reputazione, da un lato, e la libertà della manifestazione del proprio pensiero tutelata dagli artt. 21 Cost. e 51 c.p., dall’altro. E, se è vero che la condotta è scriminata in caso di esercizio del diritto di cronaca, critica e satira, è altrettanto vero queste ultime devono essere esercitate entro i limiti di verità, continenza e pertinenza. Quindi, il diritto di critica deve riguardare un fatto vero, vi deve essere un interesse pubblico alla sua conoscenza e deve essere manifestato con espressioni che, pur critiche, devono comunque essere contenute e non denigratorie.

Nel caso deciso, la Corte di Cassazione, rigettava le doglianze del ricorrente, che sosteneva di aver voluto sottolineare l’erroneità delle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio e di essersi limitato a criticare il suo operato, non certo la sua persona.

La Corte, infatti, con il rigetto del ricorso, ribadiva il concetto di continenza, affermando che si tratti di un requisito necessario per il legittimo esercizio del diritto di critica, nella valutazione del quale “si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta”, allo scopo di verificare se i toni utilizzati dall’agente siano “pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere”.

Già in precedenza la Corte aveva affermato che nell’analisi delle espressioni utilizzate, per valutare se queste fossero o meno diffamanti, occorresse verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, al contrario, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere (Sez. V, n. 32027/2018). La stessa Corte aveva precisato che il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta, ossia “strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione” (Sez. V, n. 37397/2016).

Da ciò ne consegue che, se i toni impiegati sono eccessivamente aspri, offensivi e denigratori rispetto a ciò che si deve esprimere, si incorre nel reato di diffamazione.

Nel caso in esame, secondo la Cassazione, il superamento del limite della continenza era concretamente avvenuto, avendo l’imputato utilizzato “espressioni gratuitamente denigratorie, sovrabbondanti e sproporzionate rispetto alla finalità di critica tecnico-scientifica cui esse erano destinate nell’ambito della causa civile” (ad esempio, prospettando la sua “incompetenza” o la sua “precaria conoscenza della medicina legale”, etc.).

Pertanto, nell’elaborazione di propri atti, il consulente dovrà limitarsi a proporre rilievi tecnico-scientifici e l’utilizzo di parole quali “incompetenza” e “precaria conoscenza della medicina legale” sono qualificabili come indicative di un atteggiamento gratuitamente denigratorio.

In conclusione, è possibile affermare che il diritto di critica diventa diffamazione quando l’uso di espressioni siano chiaramente denigratorie della persona in quanto tale.

 

Legge & Diritto è una rubrica quindicinale a cura della dott.ssa Francesca Santangelo.