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Legge & Diritto. La cleptomania è un disturbo idoneo ad escludere la responsabilità penale?


La cleptomania consiste in un bisogno patologico di rubare qualunque cosa, anche oggetti privi di valore e non necessariamente legato ad una reale necessità

Sotto il profilo giuridico, considerare la cleptomania una vera e propria patologia mentale consentirebbe di limitare o escludere la capacità di intendere e volere del responsabile e dunque, in questo caso, il cleptomane, anche se avesse commesso materialmente il furto, non sarebbe imputabile.
Ma spieghiamo meglio.

In generale, il responsabile di un delitto può essere condannato quando, oltre alla condotta materiale, abbia la volontà di commettere una determinata azione (dolo) o quantomeno la coscienza e la consapevolezza del suo comportamento illecito (colpa). Tale coscienza, tuttavia, viene esclusa quando sussiste un vizio totale di mente, in quanto quest’ultimo impedisce al soggetto agente di controllare le sue condotte e i suoi impulsi.

Più precisamente, il vizio totale di mente determina la non imputabilità dell’agente: se la sua capacità di intendere o di volere è totalmente esclusa nel momento in cui egli ha commesso il fatto, allora il reo non è imputabile e non è punibile ai sensi dell’art. 88 c.p. Se l’infermità determina soltanto una diminuzione di queste capacità, il soggetto attivo può ottenere una riduzione di pena, come previsto dall’art. 89 c.p. Anche un vizio temporaneo di mente può escludere la consapevolezza della propria condotta e dunque rendere la persona incapace di intendere di volere, come nel caso di alcune malattie e disturbi mentali (ad es. schizofrenia, ludopatia, …) di cui sono affetti alcuni soggetti che, di norma, sono nel pieno delle proprie capacità, salvo in alcuni momenti in cui perdono il controllo.
Il cleptomane è colpevole di furto?

Nel corso degli anni si è sviluppato un notevole dibattito giurisprudenziale e dottrinale in merito ai tipi di infermità che possono determinare l’esclusione o la diminuzione della capacità di intendere o di volere. Un punto di svolta in questo dibattito si è avuto con la sentenza n. 9163/2005 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che hanno affermato come, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi di personalità non inquadrabili nel novero delle malattie mentali possono rientrare nel concetto di infermità previsto dal codice penale, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente.

La condizione predominante è che sussista un nesso di causalità con la condotta delittuosa: il reato deve essere casualmente determinato dal disturbo mentale.

A tal riguardo, la Cassazione (Sent. n. 10638/2019) ha ritenuto che la semplice cleptomania non integri un vizio assoluto di mente. Ciò perché si ritiene che il soggetto, per quanto spinto dall’impulso di impossessarsi di oggetti altrui, nel momento in cui commette il furto sia consapevole dell’illiceità del suo comportamento. In sostanza, il cleptomane, secondo la Suprema Corte, ha generalmente una capacità, seppur parziale, di intendere e di volere, escludendo così il nesso di causale tra la cleptomania e la condotta illecita.

In una direzione diversa sembra andare il Tribunale di Spoleto, che con la recente sentenza n. 170/2019 ha riconosciuto la cleptomania tra i disturbi che possono incidere sulla capacità di volere.

Più precisamente, il Tribunale umbro, nel giudicare un’imputata per il delitto di furto, poneva un attento vaglio sulla patologia psichiatrica della donna, la quale risultava essere affetta da un disturbo di personalità caratterizzato da tratti patologici di tipo Evitante, Antisociale e Borderline, che comportano una compromissione del funzionamento personale, sociale e relazionale di rilevante importanza e provocano un istinto ad agire incontrollato che non riesce ad essere spiegato da parte del soggetto che lo ha realizzato. L’impossibilità del soggetto di controllare i propri comportamenti può indurlo a compiere condotte delittuose che, in assenza della malattia, non avrebbe compiuto.

Pertanto il Tribunale riconosce la circostanza attenuante del vizio parziale di mente ex art. 89 c.p., ritenendo l’imputata affetta da “un disturbo che, per gravità ed intensità, può essere assimilato ad una vera e propria infermità mentale, incidendo sulla capacità di volere del soggetto al punto da farla grandemente scemare”, in quanto questo disturbo non consente all’agente di comprendere il disvalore del suo comportamento illecito e influisce concretamente sulla commissione del reato di furto.

Legge & Diritto è una rubrica quindicinale a cura della dott.ssa Francesca Santangelo.