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Legge & Diritto. L’apologia del fascismo è un reato: ecco quando si applica e cosa si rischia


Con la festa del 25 aprile si ricorda la liberazione dell’Italia dal governo fascista e dall’occupazione nazista del paese


Il 25 aprile 1945 è una data importantissima per lo Stato italiano, perché ha rappresentato la condizione indispensabile per fondare una democrazia repubblicana, grazie alla collaborazione di tutti i partiti antifascisti. Non è una data scelta per festeggiare semplicemente “la fine della seconda guerra mondiale in Italia”, ma la Liberazione dal nazismo e dal fascismo, le cui ideologie e i cui regimi hanno distrutto, mediante la guerra, ogni assetto istituzionale.

Ecco perché l’apologia del fascismo costituisce reato nell’ordinamento giuridico italiano.

Il termine “apologia”, inteso estensivamente, consiste in un discorso pronunciato o scritto volto a difendere ma spesso anche ad esaltare sé e la propria opera o un’altra persona, una fede, una dottrina, ecc.
Nel nostro ordinamento giuridico l’apologia di qualsiasi delitto costituisce reato. L’art. 414 c.p., infatti, al terzo comma punisce l’apologia di delitti (che non include le contravvenzioni) e costituisce una figura autonoma di reato rispetto all’istigazione, prevista dai commi 1 e 2 dello stesso articolo. Esse si distinguono per il fatto che, mentre l’istigazione a commettere uno o più reati è diretta alla persona, l’apologia riguarda l’esaltazione di attività contrarie alle norme penali, idonea a turbare l’ordine pubblico.

Una fattispecie particolare dell’apologia di reato è l’apologia del fascismo, che consiste nell’insieme di azioni e comportamenti diretti alla ricostruzione del partito fascista.

Il reato di apologia del fascismo è previsto dalla legge del 20 giugno 1952 n. 645, detta Legge Scelba, che prende il nome dall’allora Ministro dell’Interno Mario Scelba, in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

La legge è formata da dieci articoli, il primo dei quali chiarisce che si verifica una “ricostruzione” del partito fascista quando: «[…] una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista».

L’art. 4 della stessa legge, rubricato “Apologia del fascismo”, punisce “chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità” indicate nell’articolo 1 (sopra esplicato) e “chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”.

Dalla lettura della disposizione normativa sembrerebbe che riunirsi ed affermare “W Mussolini” sia reato, ma in tal modo si riterrebbero violati il diritto di riunione e associazione ed il diritto di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantiti.

Accusata per questo motivo di incostituzionalità, in quanto contrastante con le libertà costituzionalmente garantite anzidette, l’interpretazione del testo di legge è stato chiarito dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 1/1957 e n. 74/1958, la quale ha affermato che ai fini della configurabilità del reato di apologia del fascismo, non è sufficiente che vi sia difesa o elogio del fascismo e dei suoi ideali, ma è necessario che vi sia «una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista».

Non è reato dunque difendere il fascismo a parole, ma solo se viene fatto «in rapporto a quella riorganizzazione, che è vietata dalla XII disposizione».

Nel 1993 viene varato il decreto Legge n.122 contenente “misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa” poi convertito nella legge 205/93 (Legge Mancino). Essa è uno strumento legislativo contro i crimini d’odio ed ha il fine di sanzionare e vietare ogni organizzazione movimento o gruppo che abbia tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

La legge Mancino si inserisce nell’ambito delle leggi contro il fascismo e la sua apologia, condannando soprattutto condotte riconducibili all’ideologia fascista o nazista che incitano alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali o etnici, ma anche l’utilizzo di simboli legati ai movimenti stessi.

La pena prevista è quella della reclusione fino a tre anni per la propaganda o per chi incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; mentre è da sei mesi a quattro anni per chi incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

La legge Mancino ha funzione sussidiaria rispetto alla Legge Scelba. Qualora la Legge Scelba non sia applicabile a causa dell’insussistenza, nel caso concreto, di elementi specializzanti rispetto a quelli previsti dalla legge Mancino, troverà applicazione quest’ultima. Questa è l’ipotesi in cui il giudice ritenga che la propaganda razzista non costituisca di per sé ricostituzione del disciolto partito fascista o nei casi in cui “la condotta abbia una valenza meramente individuale, a prescindere dunque da una diffusione di sentimenti nostalgici del ventennio in grado di agire sulla coscienza di altri soggetti che possa creare il concreto pericolo della ricostituzione di un’organizzazione fascista – ove entra in questione anche il bene giuridico della personalità dello stato”.

Ancora, recentemente la Corte di Cassazione si è pronunciata sul delitto c.d. di “esibizionismo razzista” (art. 2 comma 1 D.l. 122/93 convertito in L. 205/93 c.d. Legge Mancino), che punisce chiunque in pubbliche riunioni compie manifestazioni esteriori od ostenta emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni ‘razziste’ (di cui all’ art. 3 comma 2 L. 654/75 oggi art. 604 bis co 2 c.p.), cioè di quelle “organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (tra cui non vi è dubbio rientrino tutti i simboli del disciolto partito fascista o riferibili al nazismo ed al fascismo)” (Cass. pen 23 marzo 2019 n. 21409).

Legge & Diritto è una rubrica quindicinale a cura della dott.ssa Francesca Santangelo.