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Legge & Diritto. Lavoratori dipendenti: il “tempo di vestizione” deve essere retribuito?


Il tempo è denaro? Quando il “tempo di vestizione” deve essere retribuito?


Con l’ordinanza del 07 Maggio 2020, la Cassazione afferma che rientra nell’orario di lavoro, e quindi da retribuire autonomamente, l’attività di vestizione/svestizione degli infermieri, qualora sia stata effettuata prima dell’inizio e dopo la fine del turno.

Ma cosa è il tempo “tuta”?

Il c.d. “Tempo-tuta” o “Tempo-divisa” è il tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli indumenti da lavoro, prima dell’inizio o dopo la fine del turno. Si tratta di un’attività svolta non soltanto nell’interesse dell’Azienda (datore di lavoro), ma imposta anche da superiori esigenze (di sicurezza e/o di igiene) connaturate nel tipo di mansione esercitata.

Gli Ermellini si sono ritrovati a decidere sulle richieste degli infermieri che rivendicavano come compreso nell’orario lavorativo – e, dunque, da retribuire – il tempo impiegato per indossare e dismettere le divise all’inizio ed alla fine del turno di lavoro.

Ma indossare una divisa da lavoro imposta dall’azienda presso cui si lavora, prelevarla nel guardaroba, recarsi nello spogliatoio per indossarla per poi andare presso il proprio reparto di appartenenza (e lo stesso procedimento al contrario in uscita) è suscettibile di retribuzione?

Per comprendere questo è necessario valutare se l’attività di vestizione e di svestizione è inclusa nell’orario di lavoro effettivo oppure no.

Per orario di lavoro s’intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue funzioni”. Questa definizione indurrebbe a ritenere che il tempo dedicato dal lavoratore ad indossare gli indumenti di lavoro come tute, abiti, divise, camici e dispositivi di protezione individuale non possa, di per sé, essere fatto rientrare nel concetto di orario di lavoro. Ciò perché il lavoratore, al momento della vestizione/svestizione, non sta esercitando la sua attività lavorativa e, quindi, non si trova nell’esercizio delle sue funzioni.

Mancando una specifica disposizione di legge, la Corte di cassazione ha distinto i seguenti casi: 1) l’ipotesi in cui il lavoratore ha avuto in dotazione gli indumenti di lavoro ed ha la possibilità di portarli al proprio domicilio, recandosi quindi al lavoro con gli indumenti già indossati e 2) l’ipotesi in cui il datore di lavoro ha fornito al lavoratore determinati indumenti, con il vincolo però di tenerli e di indossarli sul posto di lavoro.

Come spiegato da numerose sentenze, nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro solo se tale attività è assoggettata al potere direttivo del datore di lavoro, che ne disciplina tempo e luogo di esecuzione; pertanto, in questa ipotesi sussiste un diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa.

Di conseguenza, il “tempo-tuta” non è considerato compreso nell’orario di lavoro (e dunque non è riconosciuta retribuzione) se non c’è prova che tale attività preparatoria sia assoggettata al “potere conformativo del datore di lavoro” e al dipendente è riconosciuta la possibilità di scegliere luogo e tempo per indossare la divisa, rientrando negli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento della prestazione lavorativa.

Il criterio guida per distinguere le due ipotesi rappresentate è l’eterodirezione, criterio che viene richiamato dall’ordinanza della Cassazione del 2020, in linea con il precedente orientamento dettato con la sentenza n.9215 del 2012. Con quest’ultima, infatti, la Suprema Corte aveva affermato che “nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio (c.d. tempo tuta) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, poiché insito nella prestazione lavorativa. In difetto, l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del prestatore e non dà diritto ad autonomo corrispettivo”.

In sostanza, il tempo-divisa va retribuito quando la scelta dei tempi e dei luoghi in cui procedere alla vestizione e alla svestizione della divisa non è rimessa al lavoratore ma imposta per eterodeterminazione.

A tal riguardo la Corte ha posto l’attenzione sulla funzione attribuita all’abbigliamento ed ha chiarito che l’eterodirezione “può derivare dall’esplicita disciplina di impresa, ma può anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento, o dalla specifica funzione che devono assolvere”, per obbligo imposto, lo si ripete, dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene attinenti alla gestione del servizio pubblico ed alla stessa incolumità del personale addetto.

Pertanto, con l’ordinanza del 07.05.2020, i giudici di legittimità concludono e confermano, in linea anche con la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva 2003/88/CE, che l’attività di vestizione/svestizione degli infermieri deve rientrare nell’orario di lavoro e, quando viene effettuata prima dell’inizio o dopo la fine del turno, deve essere autonomamente retribuita.

Nel caso di specie l’attività di vestizione attiene a comportamenti integrativi dell’obbligazione principale ed è funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria e costituisce, altresì, attività svolta non (o non soltanto) nell’interesse dell’Azienda, ma dell’igiene pubblica, imposta dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene. Pertanto, dà diritto alla retribuzione anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa.

 

Legge & Diritto è una rubrica quindicinale a cura della dott.ssa Francesca Santangelo.