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Legge & Diritto. Lavoratrice in gravidanza: il mancato rinnovo del contratto è discriminazione di genere


È discriminata la lavoratrice in gravidanza alla quale la Pubblica Amministrazione non ha rinnovato il contratto di lavoro a termine mentre tutti i colleghi della stessa hanno regolarmente ricevuto il rinnovo contrattuale?

La discriminazione collegata alla gravidanza e alla maternità costituisce una forma particolare di discriminazione di genere.

La materia in oggetto ha reso necessario l’intervento dei Governi, degli organismi comunitari ed internazionali. Per la salvaguardia della gravidanza, della maternità e della genitorialità, infatti, l’UE ha gradualmente dato vita ad un complesso di norme, tra cui si ricorda l’art. 157 TFUE, il quale sancisce l’obbligo della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile e prevede che il Parlamento Europeo e il Consiglio adottino misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

Anche la Corte di Giustizia UE ha contribuito allo sviluppo di questo settore del diritto ed ha affermato che la tutela dei diritti alla maternità e alla gravidanza non consiste soltanto nel garantire la sostanziale parità tra i sessi, ma anche nel tutelare la salute della madre dopo il parto e il legame tra la madre e il neonato. Con le pronunce C-177/88 Dekker del 1990 e C- 179/88 Hoejesteret del 1990 la Corte di Giustizia ha affermato che, poiché solo le donne possono rimanere incinte, il rifiuto di assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza costituiscono una discriminazione diretta fondata sul sesso che non può essere giustificata da alcun interesse, nemmeno economico, del datore di lavoro. Inoltre, con la decisione C-438/99 Jiménez Melgar del 2001 la stessa Corte ha dichiarato che, qualora il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato sia motivato dallo stato di gravidanza della lavoratrice, esso costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso.
Nell’ordinamento italiano è stato formulato il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198), il quale si è specificamente occupato del comportamento discriminatorio fondato sul sesso ed ha promosso, sul piano sostanziale, le pari opportunità di carriera e di lavoro tra i sessi.

Più precisamente, il D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25 (modificato da leggi successive), distingue la discriminazione diretta da quella indiretta.

Costituisce discriminazione “diretta” “qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga” (comma 1). La discriminazione “indiretta” sussiste “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari” (comma 2).

Il successivo comma 2-bis, aggiunto dal D.Lgs. n. 5 del 2010, art. 1, comma 1, lett. p), n. 2), stabilisce, inoltre, che “costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.

La questione è stata recentemente affrontata dalla Corte di Cassazione, la quale si è pronunciata in relazione al caso di una dipendente in gravidanza alla quale non era stato rinnovato il contratto di lavoro a termine, concesso invece a tutti i suoi colleghi uomini che si trovavano nella medesima situazione contrattuale. Il caso attiene ad una dipendente di una Pubblica Amministrazione, ma il ragionamento della Cassazione può essere certamente esteso anche ai dipendenti del comparto privato.

La Corte, sulla base di un’approfondita analisi del quadro normativo, comunitario e nazionale, in tema di tutela della maternità e lotta ai comportamenti discriminatori di genere, con la sentenza n. 5476 del 26 Febbraio 2021 ha qualificato il mancato rinnovo di un contratto a tempo determinato ad una lavoratrice in stato di gravidanza come una discriminazione di genere. La Corte ha accolto il ricorso della dipendente della P.A. ed ha affermato che il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice in stato di gravidanza può integrare una discriminazione basata sul sesso, quando la situazione lavorativa della dipendente sia pari a quella dei colleghi e vi siano esigenze di rinnovo da parte della P.A. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice e tali esigenze siano manifestate attraverso il mantenimento in servizio solo dei colleghi con contratti analoghi. È palese che la condotta del datore di lavoro comporti per la dipendente un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza.

Può quindi essere qualificato come discriminazione diretta il comportamento del datore che concede il rinnovo dei contratti a tutti i colleghi uomini nelle medesime condizioni contrattuali e non fa altrettanto invece con la donna a causa del suo stato di gravidanza.

Secondo la Corte, è necessario verificare che, in presenza di situazioni analoghe, il datore di lavoro abbia posto in essere un atto o un comportamento pregiudizievole nei confronti della lavoratrice o comunque le abbia riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza.

Quanto all’onere probatorio, l’art. 40 del D.Lgs. n. 198 del 2006 afferma che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione”.

Pertanto, il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ma è il datore di lavoro che dovrà dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione.

Legge & Diritto è una rubrica quindicinale a cura della dott.ssa Francesca Santangelo.