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Legge & Diritto. Offendere qualcuno mediante whatsapp è reato di diffamazione. Ecco cosa si rischia


Lo sviluppo della tecnologia e la rapidità con cui essa si è diffusa ha prodotto benefici alla società ma ha portato con sé anche “nuovi guai”

Oggi tutti sono in possesso di uno smartphone e moltissimi utilizzano quotidianamente applicazioni di messaggistica come WhatsApp o simili. Oltre ad inviare messaggi di testo e vocali, questa piattaforma consente di trasmettere anche file multimediali, come foto, video e audio. Inoltre, si può creare un gruppo di conversazione coinvolgendo più persone contemporaneamente o condividere il proprio stato per rendere partecipi tutti i propri contatti dei nostri momenti significativi, inserendo delle frasi o delle foto.

Talvolta, però, Whatsapp diventa un “luogo” nel quale sfogarsi o mediante il quale offendere qualcuno, con espressioni che non verrebbero in nessun caso pronunciate di fronte al soggetto interessato. Ed, appunto, su WhatsApp l’effetto lesivo dell’offesa è amplificato dal fatto che, quando il messaggio non è inviato direttamente al destinatario in forma privata, viene diffuso ad una molteplicità di persone, se si tratta di un gruppo creato sulla piattaforma, o persino a tutti i contatti della rubrica, se si tratta di un messaggio scritto sullo “stato”.

Né si può evitare la responsabilità penale per diffamazione appellandosi alla “cancellazione di un proprio commento offensivo, di uno stato o di una foto”, perché questo gesto non può essere in alcun modo considerato ravvedimento operoso; ciò perché quello che viene pubblicato rimane, con o senza il nome dell’offeso.
Il reato di diffamazione è punito ai sensi dell’art. 595 c.p. Questo afferma che «chiunque […] comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1032».

I commi 2 e 3 aggiungono che «se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2065» e se «l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad euro 516». In quest’ultimo caso si parla di c.d. diffamazione aggravata.

Tre sono, dunque, gli elementi necessari perché si possa configurare il delitto in esame: 1. l’offesa all’onore o al decoro di taluno; 2. la comunicazione con più persone; 3. l’assenza della persona offesa.
Il reato di cui all’art. 595 c.p., dunque, tutela la reputazione del soggetto offeso ed ha come elemento caratterizzante la comunicazione dell’offesa a più persone, intesa come pluralità di soggetti che siano in grado di percepire l’insulto e di comprenderne il significato. Dunque, la norma attribuisce una grande importanza al mezzo con cui l’offesa alla altrui reputazione può essere commessa. Ciò perché più ampio è il pubblico che ne viene a conoscenza, maggiore è il danno alla reputazione causato mediante l’offesa.

Inoltre, è proprio l’assenza del soggetto al quale l’insulto è riferito l’elemento che traccia il discrimine tra l’ingiuria, ormai depenalizzata, e la diffamazione, che invece costituisce reato.

Se la Corte con la sentenza n. 16712/2014 aveva finalmente affermato la sussistenza del reato di diffamazione aggravata nell’ipotesi di pubblicazione di una frase offensiva su un social network e con un’altra sentenza (la n. 7904/2019) la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione si è invece pronunciata a proposito della configurabilità del delitto di diffamazione nel caso in cui le offese siano scritte in una chat di gruppo, è solo con la sentenza n. 33219 dell’8 settembre 2021 che la Cassazione penale è tornata a pronunciarsi sull’uso improprio di WhatsApp per diffondere offese alla reputazione di un soggetto; ma questa volta non più nell’ipotesi dell’invio di messaggi in una chat di gruppo, bensì in quella di una pubblicazione di un’offesa sul c.d. “stato”.

Nel caso di specie, infatti, un uomo aveva volontariamente pubblicato sul suo stato di WhatsApp dei contenuti lesivi alla reputazione di una donna, la quale, una volta visto il contenuto e compreso di esserne il soggetto, lo aveva denunciato. Dopo essere stato condannato in primo e in secondo grado per diffamazione, l’uomo aveva proposto ricorso in Cassazione lamentando tra gli altri motivi anche l’assenza di una prova che i messaggi fossero rivolti alla persona offesa e che fossero realmente visionabili da tutti i contatti presenti sulla sua rubrica.

Questa ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’imputato poiché con la condivisione tramite il proprio stato di WhatsApp lo stesso aveva pubblicato dei contenuti lesivi per la reputazione di una donna.
Tale decisione si fonda sul fatto che anche tale comportamento consente di far giungere il messaggio ad una pluralità di persone, ovvero tutti i contatti in rubrica che, facendo uso della stessa applicazione, possono di fatto vedere quanto postato.

La Corte ha considerato del tutto irrilevante la possibilità di escludere la visione dello stato di WhatsApp a tutti o ad alcuni dei contatti presenti. Seppur è vero che tale funzione consente di effettuare una limitazione dei destinatari che possono accedere allo “stato” e conoscerne il contenuto (nella specie le affermazioni diffamatorie), è vero anche, a parer della Corte, che fosse poco probabile che l’uomo avesse riservato la visione dei suoi contenuti solo alla persona offesa bloccando la visibilità a tutta la sua rubrica, poiché in quel caso sarebbe stato sufficiente mandare un messaggio privato alla donna. Questo conferma che quei contenuti potevano essere visti da tutti i contatti presenti nella rubrica dello smartphone dell’uomo, elemento che determina la sussistenza degli requisiti ai fini del reato ex art. 595 c.p.
Alla luce di quanto detto, è chiaro che la pubblicazione di insulti diretti ad una persona individuata o individuabile

sul proprio stato WhatsApp integra il reato di diffamazione, così come un messaggio inviato in una chat di gruppo o un post condiviso sulla propria bacheca di Facebook. Ciò in virtù della capacità offensiva della reputazione individuale dato dal vastissimo pubblico che ha potuto – o avrebbe potuto – visionare i contenuti.

Bisogna, dunque, fare molta attenzione quando si usano le piattaforme web, poiché ritrattare, scusarsi o cancellare potrebbe non essere sufficiente e il procedimento penale essere in agguato.

 

Legge & Diritto è una rubrica quindicinale a cura della dott.ssa Francesca Santangelo.