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The Economist: “Con Russia e Cina le sanzioni non funzionano mentre in Europa si è innescata la recessione”

“Il sistema finanziario russo si è stabilizzato e il Paese sta trovando nuovi fornitori per alcune importazioni, tra cui la Cina. Nel frattempo, in Europa, la crisi energetica potrebbe innescare una recessione”

A scrivere questa analisi non è un giornale qualunque ma l’Economist, secondo cui il Pil della Russia, – come riportato dal’Fmi – si ridurrà del 6% nel 2022, molto meno del calo del 15% che molti si aspettavano a marzo. Le vendite di energia genereranno un surplus delle partite correnti di 265 miliardi di dollari quest’anno, il secondo più grande al mondo dopo la Cina.

“Dopo un periodo di crisi, – precisa il The Economist – il sistema finanziario russo si è stabilizzato e il Paese sta trovando nuovi fornitori per alcune importazioni, tra cui la Cina. Nel frattempo, in Europa, la crisi energetica potrebbe innescare una recessione. Questa settimana i prezzi del gas naturale sono aumentati di un ulteriore 20% a causa della stretta sulle forniture da parte della Russia”.

L’autorevole testata economica di fatto certifica che “l’arma delle sanzioni ha dei difetti. Uno è il ritardo. Per bloccare l’accesso alle tecnologie monopolizzate dall’Occidente ci vogliono anni e le autocrazie sono brave ad assorbire il colpo iniziale di un embargo perché possono mettere insieme le risorse. Poi c’è il contraccolpo. Sebbene il Pil dell’Occidente sia superiore a quello della Russia, non è possibile eliminare la morsa di Putin sul gas. Il difetto maggiore è che gli embarghi totali o parziali non vengono applicati da oltre 100 Paesi che rappresentano il 40% del Pil mondiale. Il petrolio degli Urali fluisce verso l’Asia. Dubai è piena di denaro russo e si può volare con Emirates e altri paesi a Mosca sette volte al giorno. Un’economia globalizzata è in grado di adattarsi agli shock e alle opportunità, soprattutto perché la maggior parte dei Paesi non ha alcun desiderio di far rispettare la politica occidentale”.

E ancor meno un eventuale embargo funzionerebbe nei confronti della Cina. Per The Economist è il caso di abbandonare sin da subito “qualsiasi illusione che le sanzioni offrano all’Occidente un modo economico e asimmetrico per affrontare”, Pechino, “un’autocrazia ancora più grande. Per scoraggiare o punire un’invasione di Taiwan”, sottolinea l’analisi, “l’Occidente potrebbe sequestrare le riserve cinesi da 3 miliardi di dollari e fermare le sue banche. Ma, come nel caso della Russia, è improbabile che l’economia cinese crolli. E il governo di Pechino potrebbe reagire, ad esempio, affamando l’Occidente di prodotti elettronici, batterie e farmaci, lasciando vuoti gli scaffali di Walmart e scatenando il caos. Dato che il maggior numero di Paesi dipende dalla Cina, più che dall’America, come partner commerciale, far rispettare un embargo globale sarebbe ancora più difficile che con la Russia”.

La conclusione del rapporto del The Economist è lapidaria: “la lezione dell’Ucraina e della Russia è che per affrontare le autocrazie aggressive è necessario agire su più fronti. Il potere duro è essenziale. Le democrazie devono ridurre la loro esposizione ai punti di strozzatura degli avversari. Le sanzioni svolgono un ruolo fondamentale, ma l’Occidente non deve lasciarle proliferare. Più i Paesi temeranno le sanzioni occidentali di domani, meno saranno disposti a imporre embarghi ad altri oggi”.