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Nonostante le sanzioni il petrolio russo va a ruba: india e Cina ne fanno incetta e il surplus in 11 mesi è di 9 mld di dollari

Il petrolio russo va a ruba grazie ai Paesi emergenti, a novembre l’avanzo di bilancio della Russia è più che quadruplicato grazie ai dividendi e all’imposta sui guadagni pagata da Gazprom e il surplus nei primi undici mesi dell’anno, quelli della guerra, ha raggiunto i nove miliardi di dollari

Dopo il Price Cap i Paesi europei dal 28 novembre al 4 dicembre scorso, hanno acquistato dalla Russia la metà del petrolio, rispetto alla stesso periodo dell’anno scorso e nello stesso periodo gli Stati che avevano acquistato solo 1,7 milioni di barili, ne hanno acquistato più di dieci milioni, rendendo inutili le sanzioni. A ciò si aggiunge una lunga serie di Paesi in via di sviluppo e tra i più popolosi al mondo, che stanno facendo la fila per riempire il vuoto lasciato dall’Ue.

Numeri, freddi numeri diffusi da Bruegel (acronimo per Brussels European and Global Economic Laboratory) gruppo di riflessione (think tank) politico-economico internazionale, che dimostrano che mentre il blocco occidentale volta le spalle al petrolio russo, altrove i barili di Mosca vanno letteralmente a ruba. Secondo Bruegel i milioni di tonnellate di greggio equivalente lavorando le rilevazioni di vari enti e agenzie, sono per ora parziali perché si fermano al giorno precedente l’entrata in vigore delle sanzioni ma fotografano comunque una tra le più grandi rivoluzione dei flussi commerciali energetici mai registrata prima. E che non è destinata a fermarsi nelle prossime settimane, stando alle recenti dichiarazione dei leader di diversi Stati.

Nel 2021, il greggio russo esportato via mare costituiva circa i tre quarti di tutto il greggio esportato da Mosca: 3,4 milioni di barili al giorno, mentre 1,1 milioni erano esportati via terra. Fino all’inizio del conflitto ucraino, il 75 per cento delle esportazioni russe andava in Occidente. Ora non arrivano al 30%. C’è poi da considerare che un altro terzo dell’export non si sa realmente dove vada a finire ma resta il punto centrale: a novembre scorso quasi il 40% del petrolio è finito in Asia e dintorni. Chi ha deciso di saldare un patto energetico di lungo periodo con Vladimir Putin è l’India e non ha intenzione di recedere. Venerdì scorso si sono visti a Mosca il primo ministro russo e l’ambasciatore indiano Kapoor: “Le parti hanno notato un aumento record del fatturato tra i due Paesi e hanno espresso la loro disponibilità ad incrementare la cooperazione nel commercio di beni energetici: petrolio, prodotti petroliferi, gas naturale liquefatto, carbone e fertilizzanti”, hanno fatto sapere. Nel 2022 il fatturato tra l’India e la Russia ha superato i venti miliardi di dollari. È solo l’inizio: “Comprendo che l’Europa abbia il suo punto di vista”, sulla questione ucraina “farà le scelte che ha diritto di fare”, ha affermato il ministro degli Esteri di Nuova Delhi, ma non può “dare priorità ai suoi bisogni energetici, e poi chiedere all’India di fare tutt’altro”. E infatti dall’anno scorso ad oggi gli acquisti di barili da parte dell’India sono aumentati di ben quattordici volte.

Nel 2021, Nuova Delhi non arrivava ad acquistare più di 35mila barili al giorno. Nel mese scorso ha importato in media circa 960mila barili in un progressivo e costante incremento di flussi che ormai hanno di fatto reso il Paese orientale il principale candidato a sostituire l’Europa come cliente. A sostenere la domanda di beni energetici russi.

Poi c’è la Cina, le cui importazioni via mare sono aumentate da 670.000 barili al giorno di febbraio scorso a quasi il doppio a circa 1,1 milioni di barili al giorno a novembre. I due importatori asiatici hanno rappresentato il 70% delle esportazioni marittime di greggio russo lo scorso mese, rispetto al 58% del mese precedente.

Il greggio di Putin ha cambiato rotta anche a costo di ribassi e sconti sul prezzo praticato ai nuovi acquirenti. Ma quello che viene perso sul petrolio viene lautamente compensato dalle vendite di gas e quelle, l’Ue non è ancora in grado di sanzionarle. A novembre – secondo quanto ha reso noto il ministero delle Finanze –  l’avanzo di bilancio della Russia è più che quadruplicato grazie ai dividendi e all’imposta sui guadagni pagata da Gazprom. Il surplus ha raggiunto i nove miliardi di dollari nei primi undici mesi dell’anno.

Le sanzioni dunque non funzionano e questo perché Mosca, come prevedibile, ha messo in atto le sue contromosse, riscrivendo le rotte del commercio di greggio. Le navi cisterna seguono infatti quattro grandi rotte. Quella baltica attraverso i terminal petroliferi di Primorsk e Ust-Luga, a nord di San Pietroburgo nel mar Baltico, che rappresentano circa il 30% della capacità di carico di petrolio russo con circa 1,8 milioni di barili al giorno. C’è poi quella artica, attraverso il porto di Murmansk, nell’estremo Nord affacciando sul mar Artico. Da qui prima della guerra salpavano navi con carichi complessivi da 310mila barili al giorno, diretti sempre verso il Nord Europa ma nelle ultime settimane le cisterne hanno iniziato a prendere la direzione di Nuova Delhi, anche allungando notevolmente i viaggi passando attraverso il Canale di Suez. I carichi destinati alla Cina seguono invece la rotta del Pacifico e partono dai tre terminal dell’estremo oriente russo, Kozmino, De Kastri e Prigorodnoye, che insieme possono esportare fino a 800mila barili al giorno. La tipologia di greggio non è quella ormai famosa e a forte sconto degli Urali ma l’Espo che attualmente viene pagato anche tra i 65 dollari e i 70, ben al di sopra del price cap fissato dall’Ue su tutto l’oro nero di Putin.

Infine c’è la rotta del Mar Nero, da 700mila barili al giorno, che salpa dal porto di Novorossiysk. È uno dei punti di carico più strategici di Mosca anche perché da lì passa anche il petrolio kazako del Caspio attraverso l’oleodotto Caspian Pipeline Consortium. Ma ha un’unica via d’uscita: lo stretto del Bosforo. Ed è qui che si è creato il primo grande tappo di petroliere in seguito all’introduzione del price cap. Il tetto fissato dall’Ue stabilisce che il greggio russo degli Urali non deve superare i 60 dollari. La lunga coda di oltre venti navi cisterne, molte delle quali con greggio del Kazakistan, e quindi non soggetto a sanzioni, si è formata dopo le richieste arrivate da parte delle autorità turche di documentazioni aggiuntive che le imbarcazioni non sono state in grado di produrre. Le sanzioni occidentali vietano le coperture assicurative sui carichi di greggio pagato a un prezzo superiore al cap. In altre parole le autorità del Bosforo a Nord e dei Dardanelli a sud chiedono di mostrare una lettera di assicurazione dei carichi da cui si possa desumere che il costo dei barili trasportati rispetti il tetto.

Ankara teme infatti eventuali incidenti di carichi che non siano effettivamente coperti da assicurazione: le garanzie che decadono in caso di mancato rispetto del tetto. “La Turchia chiede agli assicuratori garanzie che questi ultimi non possono fornire”, ha dichiarato in un comunicato Neil Roberts, capo della sezione per i trasporti marittimi e aerei della Lloyd’s Market Association. Il tipo di copertura assicurativa richiesta corrisponde all’assicurazione di protezione e indennità da rischi (P&I ndr) e costituisce un fattore cruciale nel trasporto di grandi quantità di greggio, perché copre il rischio di incidenti dalle conseguenze potenzialmente nefaste, specie nei pressi di un’area densamente abitata come la metropoli di Istanbul, che costeggia entrambe le sponde Bosforo e presenta punti di navigazione stretti e non facili.

Secondo le compagnie assicurative le richieste delle autorità marittime turche non costituiscono pratiche “standard”. A causa dello stallo, al momento secondo Bloomberg, sono bloccati tra i 15 e i 25 milioni di barili e i tempi di attesa nel Mar di Marmara per l’attraversamento del Bosforo sono intanto saliti per tutte le navi dai tre giorni di media ai dieci giorni di quest’ultima settimana. Il paradosso è che il greggio trasportato è in larga parte kazako. Almeno così viene riferito perché è chiaro che, essendo il terminal di Novorossiysk il punto di approdo sia del greggio degli Urali sia del Caspio, difficilmente se ne può dimostrare la provenienza, al di là dei certificati che possono essere prodotti. A rendere le cose più difficili ci ha pensato Mosca: la russa Lukoil ha deciso di bloccare l’export russo attraverso l’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan, che arriva proprio in Turchia, e di far convergere tutto il petrolio nel Caspian Pipeline, dove passa anche quello del Kazakistan, facendolo salpare da Novorossiysk. Distinguere tra russo e kazako sarà sempre più difficile.

Proprio la Turchia sta peraltro incrementando a dismisura gli acquisti di greggio dalla Russia, triplicandoli: a febbraio scorso erano di 110mila barili al giorno, a novembre in media sono stati di 330mila barili al giorno. Persino gli Emirati Arabi Uniti sono entrati a far parte del club degli acquirenti di Putin importando circa 35.000 barili al giorno nel maggio 2022, dopo quasi due anni senza comprarne nemmeno una goccia. Lo scorso mese ne ha comprati altri 28mila barili al giorno. E Cuba, che prima della guerra in Ucraina ne acquistava pochissimo, a ottobre e novembre ha importato rispettivamente 48.000 e 23.000 barili al giorno.

Tutto il pacchetto di misure sul petrolio dipenderà perciò dagli effetti del divieto di assicurazione navale sui carichi oltre la soglia fissata dal cap. La Russia si sta attrezzando da settimane per fornire coperture assicurative alternative per i clienti che vogliono comprare al prezzo stabilito dal mercato e non a quello fissato dal G7. Il grande punto interrogativo è sulla reale efficacia dell’embargo nel caso in cui Cina e India decidessero di approfittare del vuoto lasciato dall’Europa. Il ministro degli Esteri Lavrov ha buon gioco nel sostenere che “dettare i prezzi al mercato è una svolta molto insolita per coloro che hanno difeso per decenni il libero mercato, la concorrenza leale, l’inviolabilità della proprietà privata”. Per certi versi coglie il punto: per quanto nobile e sacrosanto sia l’intento di colpire le entrate energetiche di Putin, la riuscita delle sanzioni dipende da quanto funzionerà uno dei più grandi sabotaggi del libero mercato globalizzato a danno non dell’Iran o del Venezuela, ma di uno tra i principali produttori ed esportatori di petrolio al mondo. E che ad averlo architettato sia stato il blocco occidentale è solo l’ennesima prova dei tempi che corrono.