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Storie di Sicilia. Correva l’anno 1967 e arrivò il giorno della Vendemmia: dall’Uva al Vino

U vinu è nimicu ca agisci a tradimentu. (Il vino e un nemico che agisce a tradimento)

La mia famiglia aveva preso in affitto un piccolo casolare e un pezzetto di terra per adibirlo alla coltivazione di uva sia da tavola che per fare il vino… correva l’anno 1967 (un desidero che il mio caro padre volle realizzare per ottimizzare la sua passione per la campagna e per il buon vino).

Il giorno della vendemmia e la mia compartecipazione

Il momento del passaggio dall’uva al vino è un vero e proprio viaggio. Una pratica antichissima che ha radici ancora più remote tanto da essere celebrata dalla letteratura greca e latina.

Raccolta e condivisione sono le parole chiavi che rappresentano questo magico momento. Una riunione che racchiude tradizione e innovazione.
La vendemmia è il momento di raccolta dell’uva. È l’occasione che riunisce tutte le persone che lavorano fianco a fianco per intere settimane. È la festa di fine stagione. La conclusione di un duro lavoro fatto insieme.

Era un lunedì mattina di inizio settembre. Tutti eravamo pronti per iniziare a vendemmiare. Lungo la strada che conduceva ai primi vigneti io, mio padre, mio zio ed alcuni amici eravamo già lì di buon’ora mentre la mia cara madre era intenta ad osservare il panorama. Cielo limpido e azzurro, odore dell’erba e della terra, calore del primo sole che riscalda il volto determinato di decine e decine di lavoratori.

I trattori erano già accesi aspettando di esser caricati di uva.

Il responsabile delle operazioni Don Carmelo, controllava che tutto era ben sistemato tenendo d’occhio il procedere della raccolta. Un po’ di vento, qualche nuvola che si intravedeva in lontananza e la voglia di iniziare a toccare, con mani esperte, grappoli di uva grossi e succosi.

Quello della vendemmia era un momento importante per la nostra famiglia era un momento di condivisione. I filari si sviluppavano in modo ordinato uno accanto all’altro in parallelo, e davano un senso di perfezione ed armonia nei nostri cuori.
La sua pratica ha origini molto antiche e una rilevanza letteraria molto alta. Ricordiamo il racconto di Bacco e delle Baccanti che rappresentano l’emblema dell’iconografia antica del vino ma anche dell’opera di Plinio il Vecchio “Naturalis Historiae” che va ad analizzare le caratteristiche del territorio e delle coltivazioni delle viti.

I filari raccoglievano le voci, una diversa dall’altra, degli operai a quelle degli amici e nel nostro caso anche di alcuni nostri parenti che raccoglievano l’uva con gesti meccanici e mirati. Le mani che afferravano il grappolo e le cesoie che con un taglio netto, permettevano al grappolo di cadere in secchi di plastica di ogni forma e dimensione.

La fatica era visibile sui volti dei lavoratori. La terra stessa sudava la fatica degli operai, ma era ancora più visibile nei volti dei nostri amici e parenti che non erano abituati a quel tipo di lavoro duro e ripetitivo.

Uomini e donne caricavano l’uva all’interno di casse trainate da trattori per poi scomparire in lontananza diretti verso la cantina che aveva l’onore di trasformare l’uva in vino.

Il grande cancello veniva spalancato per lasciare passare, come un corteo festoso, i trattori. L’uva faceva il suo ingresso sotto gli occhi degli operai e di tutti noi pronti ad intraprendere un passaggio fondamentale, attento e scrupoloso: la trasformazione dell’uva in vino.

Ciò che un tempo veniva fatto a piedi nudi in botti di legno, oggi viene controllato e meccanizzato… Tempi che furono!

Il Racconto della raccolta ai tempi di mio padre

Il racconto di mio padre sulla vendemmia che mi fece una sera in occasione del suo 68° compleanno nella casa di mare…; Aspettavamo per l’occasione mio zio “Zinu” (Enzo…) zia Maria e i miei cugini Costantino e Giovanni che venivano da Milano.

“Anche quello della vendemmia, caro Salvatore (solo mia madre mi chiamava Titì…), era come un rito, il rito di un tempo del mondo contadino, un mondo che adesso non esiste più e si concludeva, come sempre, come per altri riti, con una grande festa, perché il vino mica veniva comprato come oggi ai supermercati nelle bottiglie che di quel vino hanno mantenuto solo il colore, invece il sapore viene ottenuto mediante un miscuglio di qualche polverina chimica con l’alcol”.
All’epoca, attorno le case di campagna dove andavamo con la mia famiglia, c’erano lunghe file di viti che chiamavamo filari, decine, centinaia di filari paralleli e campi e campi piantati ad uva… non erano le nostre; all’epoca la mia famiglia trascorreva buona parte della villeggiatura in una casa presa in affitto adiacente ai campi destinati alla coltivazione dell’uva. (in seguito mio padre acquistò quella casa ed un appezzamento di terreno).

Mio Padre mi descriveva la sua prima esperienza di vendemmia, quando ogni filare era una lunga fila di pali piantati nella terra ad una distanza sempre uguale l’uno dall’altro. Prima pali di legno, poi di cemento, poi di plastica poi tolsero tutto, tolsero le piante, tolsero i filari e tolsero anche il vino e con il vino tolsero un’altra parte della nostra cultura.

“La pianta della vite era come la pianta della vita, mio caro Salvatore, il contadino custodiva ogni singola vite un po’ come fa Dio con ciascuno di noi”.
Io trovai mio padre nei filari che controllava una pianta dopo l’altra, sceglieva il tralcio che considerava sano e tagliava gli altri che buttava via perché l’uva non doveva essere necessariamente tanta ma doveva essere buona.

Mio padre si soffermò nel dire che la cura della pianta della vite era un impegno che durava tutto l’anno.

“A quel tempo si passava tra i filari e si guardava ogni singolo grappolo crescere e, proprio come nella vita, se si vedeva anche un solo acino marcio lo si strappava e lo si buttava via ma se l’intero grappolo avesse avuto troppi acini marci si sarebbe dovuto buttare tutto il grappolo a terra.

Poi, prima che l’autunno arrivasse e l’inverno ci chiudesse in casa, dopo aver durante la primavera e la stagione estiva raccolto ogni frutto della terra, per ultimo si raccoglieva l’uva e si andava a vendemmiare.

Allora, si tiravano fuori i cesti riposti dell’anno precedente, quelli ancora in legno, quelli che qualche parente, forse un secolo prima, sapeva ancora intrecciare. Restava almeno il cesto e così forse pure il ricordo del parente, poi si preferì la cesta in plastica lavabile e così si perse pure il ricordo del parente.

E cominciavano ad arrivare amici, conoscenti, parenti e vicini cui poi si sarebbe ricambiato il favore perché la vendemmia era un po’ come una comunione per la quale, sai, ci si prendeva pure le ferie dal lavoro per andare come ad una messa laica anche se la sera diventava spesso pure una messa alcolica dove, diciamo, a volte parlava pure lo Spirito Santo.

Così si aprivano anche i cassetti dove, sempre l’anno prima, si erano riposte le forbici a cesoia e quasi si buttavano sul tavolo e così tante mani cominciavano ad aprirne ad a una a una la sicura per provarle, testare se la molla era dura o morbida o se si inceppava; c’era pure chi veniva con la sua forbice personale e guai ad usarla perché poteva quasi costarti la vita.

Era il capo degli operai, (il più esperto in materia) che decideva da dove iniziare. Decideva a seconda di come era andato l’anno e a che punto era la maturazione dell’uva, se vendemmiare prima la bianca o la nera, l’Italia o la zuccarina, e così, uomini e donne, andavamo nei filari ognuno con la propria forbice e il proprio cesto ed attaccavamo un pianta dopo l’altra, prendendo sotto ogni singolo grappolo per non farlo cadere e non rovinarlo, scostavano con l’altra mano le foglie e si recideva il gambo riponendo poi così il grappolo nella cesta che piano piano si riempiva…non c’era fretta in modo che nessun grappolo sfuggisse perché, proprio come nella vita, nessuno doveva stare indietro e, non colto, marcire sulla pianta.

Ma il vero oggetto del desiderio per alcuni bambini, che in occasione della vendemmia si trovavano nella tenuta, era il trattore che trainava il carro dell’uva in mezzo ai filari dove si svuotavano i cesti pieni di grappoli facevano a spintoni per salire sugli alti scalini di quella macchina che ai loro occhi sembrava gigante per mettersi al volante e fingere di guidare.

Quando poi arrivava l’adulto che guidava il trattore, se erano fortunati, e all’epoca erano molto fortunati, questi li faceva sedere sui copri ruota del trattore che erano abbastanza grandi e, tenendosi forte ad ogni sporgenza, che non fosse un organo meccanico in movimento, si tenevano duri pronti a partire. C’era anche chi preferiva trovare posto nel cassone vuoto per un lungo giro prima di andare in mezzo ai filari; era un vero e proprio divertimento come andare in giostra ma molto meglio.

Passavamo così giorni interi nei campi perché tante e tante erano le viti – e i giri in trattore – così pure molte erano le famiglie che, una dopo l’altra, si davano una mano recandosi nelle case e nelle tenute delle altre a vendemmiare.

Ad un certo orario portavamo i panini col salame di maiale, salame vero, quello di un maiale vero, non so se mi capisci, ed il vino vecchio, quello dell’anno prima, quello che si doveva per forza consumare e in alcuni casi si esagerava, qualcuno cominciava a cantare e l’altro a fianco lo accompagnava ed erano tutti allegri e tutti si scambiavano i bicchieri di vetro mezzi pieni che si riempivano un’altra volta e l’uno usava il bicchiere dell’altro e nessuno si ammalava sai e anche i bambini a volte rubavano qualche sorso.

Alla sera poi, se ancora non era freddo, si mettevano le tavole in cortile, che all’epoca si chiamava bagghiu , e si brindava alla giornata conclusa e all’ultimo frutto dell’anno che si era colto e, finalmente, si guardava chi c’era, chi non era potuto venire e chi non c’era più perché la vita poi finisce ma come l’uva, frutto della vite, può diventare qualcosa di ancor più buono in vino così la morte, anch’essa frutto ma della vita, non era altro che il compimento della vita terrena… Tempi che furono e ricordi che affiorano come gocce di pioggia che si adagiano lentamente nella mia memoria man mano che scrivo per raccontare, ed è proprio così che un ultimo ricordo mi affiora innanzi, quando con una sonora risata Don Carmelo alla fine della lauta cena dopo un’abbondante bevuta di vino… esclamò “Lu vinu fa cantari, l’acqua fa allintari…”

 

Storie di Sicilia è una rubrica quindicinale a cura di Salvatore Battaglia Presidente Accademia delle Prefi