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Legge & Diritto. Prezzo esposto diverso da quello richiesto alla cassa? Vediamo cosa dice la legge


Vi è capitato che il prezzo esposto di un prodotto è diverso da quello richiesto in cassa? Ecco cosa fare in questi casi

A chi non è accaduto, almeno una volta nella vita, di essere indotto ad acquistare un articolo per il prezzo conveniente, salvo poi scoprire che lo stesso fosse errato e che quello corretto fosse, in realtà, più alto?

Cosa succede in questi casi? Bisognerebbe accettare di corrispondere il prezzo reale (più elevato) o si potrebbe pretendere di pagare il prezzo esposto (più basso)?

Occorre innanzitutto chiarire che, in base a quanto previsto dalla normativa contenuta nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (che disciplina l’esercizio di un’attività commerciale), i commercianti hanno l’obbligo di esporre (all’ingresso dei locali o nelle vetrine esterne o nelle immediate vicinanze) i prezzi dei prodotti in vendita, indicandoli in modo chiaro, univoco e ben leggibile. Ciò può avvenire mediante l’uso di cartelli o di qualsiasi altra modalità che sia idonea a consentire al consumatore di conoscere il prodotto ed il relativo prezzo. Il prezzo che deve essere indicato ed esposto è il prezzo finale, comprensivo dell’IVA e di ogni altra imposta. In più, il Codice del consumo (D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), allo scopo di arricchire l’informazione da fornire al consumatore, prevede che i prodotti offerti dai commercianti ai consumatori devono indicare il prezzo di vendita e quello per unità di misura (esempio €/m, E/l €/kg).

L’obbligo di esporre il prezzo di vendita al pubblico si considera violato anche qualora il prezzo venga indicato su un cartellino collocato sotto l’oggetto esposto in vendita: in questo caso, infatti, non è consentita una diretta visibilità del prezzo al cliente (Cass. Civ., Sez. I, 16/02/2005 n. 3115).

A questo obbligo, in base al combinato disposto dell’articolo 14 del D. Lgs. n. 114/1998 e dell’articolo 1336 c.c., corrisponde il diritto riconosciuto al consumatore di pagare il prezzo esposto sullo scaffale o indicato sul cartellino e non è considerata una circostanza giustificatrice quella addotta dal commerciante che afferma che non abbia “avuto il tempo di modificare il prezzo” o che “abbia riscontrato un errore di stampa o trascrizione”.

Pertanto, il prezzo battuto in cassa deve essere lo stesso di quello che viene esposto.

Nel nostro ordinamento giuridico, infatti, vige il principio civilistico c.d. consensualistico, secondo il quale un contratto si perfeziona quando c’è l’incontro di due volontà (rispettivamente del venditore e dell’acquirente). Dunque, il contratto di compravendita si ritiene concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte e cioè nel momento in cui l’acquirente, una volta conosciuto il prezzo, manifesta la volontà di procedere all’acquisto.

Orbene, l’esposizione del prodotto in vendita e l’indicazione del relativo prezzo associato al prodotto realizzano una vera e propria “offerta al pubblico”, per utilizzare l’espressione codicistica. Ai sensi dell’art. 1336 c.c., infatti, “l’offerta al pubblico, quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta, vale come proposta, salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi”.

In sostanza, l’acquirente, visto il prodotto e conosciuto il prezzo, ha la libertà di scegliere se acquistarlo o no; nel momento in cui esprime la volontà di procedere all’acquisto, il contratto di vendita si perfeziona.

Da quanto detto si deduce che il commerciante non può successivamente richiedere il pagamento alla cassa di un prezzo diverso e più alto rispetto a quello esposto in vetrina e che ha indotto l’acquirente a comprare. Inoltre, qualora il venditore si rifiuti di concludere la compravendita (per es. perché avvedutosi solo in quel momento di aver esposto un prezzo errato o perché si trattasse di un errore di stampa o di trascrizione), il rifiuto costituirà inadempimento contrattuale.

Qualora, tuttavia, l’acquirente abbia corrisposto un prezzo maggiore, avrà diritto alla restituzione dell’eccedenza versata e, quindi, al rimborso della differenza di prezzo in contanti, non potendo la restituzione avvenire mediante la corresponsione di “buoni spesa”.

Ma è sempre così?

Quanto appena detto costituisce la regola alla quale fanno eccezione due ipotesi.

La prima riguarda l’ipotesi dell’errore riconoscibile, disciplinato dall’art. 1431 c.c. che lo considera tale “quando in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”.

Pertanto, qualora il prezzo di un prodotto è esageratamente basso rispetto al valore del bene cui si riferisce (valore di cui è facile avere conoscenza), dovrebbe sorgere nell’acquirente il dubbio che si tratti di un errore in cui è incorso il venditore. In questo caso, infatti, l’acquirente dovrà corrispondere al venditore il prezzo più alto e non il prezzo esposto.

La seconda eccezione riguarda i casi di e-commerce. In questi casi il processo di compravendita si modifica e diventa “a parti inverse”, cioè è strutturato in modo tale che a fare l’offerta di vendita sia l’utente nel momento in cui conclude la procedura on-line di acquisto; sarà poi il venditore a doverla accettare affinché la vendita si realizzi.

Riepilogando, qualora il prezzo esposto in vetrina sia inferiore al prezzo diverso e maggiorato preteso alla cassa dal commerciante, all’acquirente è riconosciuto e garantito, salve le eccezioni delineate, il diritto di pagare quello conosciuto. E qualora abbia corrisposto un prezzo maggiore, avrà diritto alla restituzione dell’eccedenza versata in contanti.

Legge & Diritto è una rubrica quindicinale a cura della dott.ssa Francesca Santangelo.