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Legge & Diritto. “Body shaming”: Prendere in giro qualcuno sui social per i “difetti” fisici è reato

Spesso capita di leggere sui social post offensivi verso persone “colpevoli” solo di essere portatori di disfunzioni o difetti fisici più o meno gravi. Ma il denigratore può essere denunciato ed essere condannato

Postare pubblicamente su Facebook o su altri social frasi che prendono in giro una persona per i suoi difetti fisici è diffamazione, reato al quale si applica l’aggravante se commesso sui social.

Per capire meglio di cosa si tratta vediamo qualche esempio. Chiamare “Ciccio bomba” una persona grassa, è un classico esempio, così come chiamare un non vedente “il cieco di Sorrento”, oppure “lo sciancato”, una persona che ha problemi di deambulazione o anche dare dell’incompetente a qualcuno che la pensa diversamente. Chiarito il concetto, vediamo cosa rischia il diffamatore. Per la legge simili frasi indirizzate a soggetti con problemi, se postate sui social rientrano nel reato di diffamazione, identificato come body shaming. Va precisato che non esiste un reato apposito che la legge chiama body shaming, bisogna quindi valutare se le espressioni incriminate rientrano nella diffamazione.

Il body shaming quindi scatta sui social, questo perché si presume che la platea che vedrà l’offesa sara vasta, se invece la frase atta ad offendere la reputazione è fatta di persona scatta la diffamazione, ma solo se oltre alla vittima ad assistere ci siano almeno altre due persone.

Vediamo in cosa si incorre quando scatta il reato di diffamazione sui social network

La diffamazione scatta quando una persona, in presenza di un pubblico costituito da almeno due soggetti, offende l’altrui reputazione anche con un emoji che richiami un concetto sgradito (ad esempio quello che raffigura gli escrementi, il pagliaccio o la faccina che ride per dileggio). Il tutto senza che la vittima, in quel momento, sia presente e possa difendersi.

Secondo una recente pronuncia della Cassazione con la sentenza n. 2251/2023, prendere in giro una persona per i suoi difetti fisici è reato e oltre alle parole usate, anche le emoticon che accompagnano il post, rientrano nel reato. Inoltre la diffamazione diventa aggravata, per la quale è prevista una pena superiore, quando è commessa sui social perché è in grado cioè di raggiungere un numero molto più ampio di persone.

Nel caso deciso dalla Suprema Corte, un uomo è stato condannato alla multa di 800 euro e al risarcimento dei danni per aver offeso un altro soggetto perché, pubblicando in un post pubblico su Facebook dedicato ai problemi di viabilità, faceva espresso riferimento a deficit visivi di un altro soggetto, aggiungendo anche “emoticon” simboleggianti risate, dileggiandola.

Vediamo adesso qual’ è la differenza tra diffamazione e ingiuria a mezzo post sui social

L’assenza della vittima distingue la diffamazione dall’ingiuria: si ingiuria una persona presente, offendendone l’onore o il decoro (art. 594); si diffama un assente, del quale si ferisce la reputazione, comunicando con più persone, cioè con terzi (art. 595). Dunque l’ingiuria si caratterizza per il fatto che l’offesa viene pronunciata in presenza della persona a cui è indirizzata, ma secondo la Cassazione, la circostanza che la parte offesa possa leggere il post e quindi replicare in via immediata alle espressioni offensive pubblicate su una chat, non incide sul fatto che il messaggio offensivo  raggiungerà inevitabilmente non soltanto la vittima, ma un numero non quantificabile di persone.

Va inoltre precisato che nel caso non si configuri più la diffamazione ma la semplice ingiuria, cambia anche la tipologia del reato che non è più penale, ma diventa un illecito civile. In quest’ultimo caso chi viene offeso di presenza, con altre persone che guardano, non può sporgere querela ma deve limitarsi a chiedere il risarcimento del danno in via civile, sobbarcandosi l’anticipo delle spese processuali.

Vediamo adesso alcune sentente con le quali la Cassazione ha stabilito che si sia trattato di body shaming

Secondo la sentenza n. 150/2021 della Corte Costituzionale “la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un’aggressione alla sua reputazione”. Inoltre la Corte costituzionale ha ribadito “che la reputazione individuale (da non confondersi, naturalmente, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio) sia un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona”.

La Cassazione, con la sentenza n. 10905/2020, è intervenuta anche sul discrimine tra diffamazione e ingiuria in caso di offese espresse tramite internet, ha chiarito che “soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell’offesa e recepimento della stessa da parte dell’offeso vale a configurare l’ipotesi dell’ingiuria”. In difetto, invece, “del requisito della contestualità, l’offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore”.

Per gli ermellini quindi, se è vero che nel caso di specie la vittima ha potuto replicare alle offese via chat, è anche vero che tale possibilità si è data in un momento successivo alla pubblicazione delle offese su Facebook. In tal caso, quindi, si profila l’ipotesi della diffamazione, la quale, “avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa, a condizione che essi siano, in quel momento e in quel luogo (virtuale o non), in grado di difendersi”.

In conclusione, chi fa body shaming su internet prendendo in giro le persone commette reato di diffamazione anche se la vittima può vedere il post e anche se non esiste una specifica norma che punisce il body shaming.